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il 15 Giu 2009

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Vegas, Wsop e la democrazia del Rio

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LAS VEGAS – Quando atterri a Sin City l’aria delle World Series ti travolge col suo entusiasmo ben prima che quella del deserto ti secchi la gola. Non fai nemmeno a tempo a ritirare i bagagli all’aeroporto che, sparsi in mezzo alle slot machine distribuite in ogni dove nelle sale d’attesa del McCarran Airport, ci sono i totem che ricordano le imprese dei campioni del mondo di texas hold’em. I cartelli che raccontano le mani vincenti di Doyle Brunson, Joe Hachem, Peter Eastgate, sono appesi ai tabelloni delle partenze e degli arrivi.

Las Vegas è così: tutto e il contrario di tutto, a pochi centimetri di distanza, per sorprendere sempre, ventiquattro ore al giorno. E far sognare, anche. Ad esempio la gloria pokeristica che le migliaia di giocatori che per un mese e mezzo, da fine maggio a metà luglio, inseguono nel Casino Pavillion del Rio come un’ossessione.

Rio Hotel

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Negli ampi corridoi che collegano quelle enormi sale dai nomi esotici – Brasilia, Amazon, Miranda, in cui ibernati dall’aria condizionata sparata a mille i giocatori si contendono i braccialetti a colpi di rilanci e contro-rilanci -, puoi trovare di tutto.
Vecchioni miliardari che si sparano un torneo come potrebbero puntare finale otto alla roulette buttando lì un grappolo di fiches. Ragazzini con capellino e cuffione al collo che hanno messo in tasca i guadagni di ore ed ore di poker on line per giocarsi la loro fetta di sogno americano ai tavoli del Rio. Oppure pezzi di storia del poker come Doyle Brunson e Tj Cloutier, che girano su quelle che una volta si sarebbero chiamate sedie a rotelle – ed oggi invece sono macchinine elettriche con tanto di marce – dispensando un saluto, un autografo e una battuta di spirito a tutti: ti chiedono di te, da dove vieni, che fai, senza limitarsi a rispondere a monosillabi, sorridere malvolentieri in uno scatto fotografico e graffiare con una penna un foglio di carta che a casa poi il beneficiario chiamerà autografo.

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Ed è questo che ti spiazza. La faccia buona degli Stati Uniti è così: democrazia pura “for all”, il lei non esiste, si dà del tu perfino al Padreterno, e questo si riflette alla milionesima potenza a Las Vegas dove tutti sono uguali e tutti parlano a tutti. Attorno a un tavolo da gioco delle World Series, ad esempio, non ci sono differenze, qualsiasi giocatore ha le stesse chip, due o quattro carte coperte a seconda del gioco, e quindi le stesse possibilità di vincere. E per non far venire dubbi a nessuno da quest’anno si è tornati ad abolire pure i rebuy. Sarà un bene oppure no? Ce lo diranno i puristi del gioco tra un mese.

NegreanuNell’attesa, arrivati da due giorni a Vegas, non puoi non farti venire qualche dubbio su questa supposta uguaglianza, notando che Phil Ivey si è aggiudicato il secondo braccialetto nell’arco di dieci giorni, arrivando così a quota sette e mettendo già nel mirino i recordman Hellmuth, Brunson e Chan. Non puoi non chiederti se tutta questa sbandierata uguaglianza, almeno quella ai tavoli, sia solo un proclama di facciata: specie quando Scott Clemens continua a macinare tavoli finali se le regole del gioco sono quelle dell’omaha hi-lo. E allora ti chiedi: ma sono davvero così democratiche le World Series, o forse c’è gente davvero tanto più brava degli altri al punto da essere quasi immune a sfortuna, river e bad beat? Oppure c’è gente tanto più scarsa degli altri da non avere alcuna chance di arrivare nemmeno vicina a un braccialetto? Chiedetelo a Daniel Negreanu, un altro che di tavoli finali tende a farne spesso, se mai un giorno avrete la fortuna di incontrarlo al Rio. Vedrete, vi risponderà. Ma non gliene vogliate se quello che vi dirà con la sua simpatia non vi darà soddisfazione.

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