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il 23 Giu 2009

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L’altra faccia di Las Vegas

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Punto fermo della nostra società è l’ansia. La più drammatica è quella “da prestazione”, ma esiste anche quella “da foglio bianco”. Chi scrive la conosce bene, la seconda non la prima, salvo qualche collega di cui non faccio il nome….

In pratica ti metti davanti al computer e devi buttare giù 3000 battute: spesso tutto fluisce naturalmente, a volte cancelli e ricancelli. Adesso è una passeggiata, una volta con la macchina da scrivere si sprecavano i fogli tristemente accartocciati. Proporre ogni giorno, o quasi, un pezzo di “colore” non è semplice: a volte lo spunto è immediato, a volte ti scervelli.

Scelgo, allora, di passeggiare per il “Rio” a caccia di ispirazioni: dall’ingresso fino alla sala stampa, il tragitto più lungo. Eccola l’ispirazione! Il pezzo va fatto non sui campioni, ma sugli sconosciuti che popolano la sede delle World Series. Cominciamo, allora, dall’inizio. Nel momento in cui si entra nel casinò, ma anche in qualsiasi altro locale, sembra che quell’odioso signore che ti inseguiva con un phon dall’aria rovente abbia deciso finalmente di lasciarti il pace; purtroppo, però, ti aspetta un altro con il phon dall’aria gelida, e senza felpa sono guai…

I tavoli sono pieni, tutti. Si gioca, all’ingresso, a minimi bassi e la fortuna la tentano dai 21 anni ( questo è il limite minimo ) in su ( a salire non c’è: anzi più la senilità ha colpito più la dirigenza del casinò ne trae vantaggio e, quindi, ne è soddisfatta…). Vedo subito un paio di americanine niente male che si divertono con 7 e 2 a scoppiare i punti di rodati “rounders”, che, comunque, se la ridono, perché sanno che prima o poi gli toglieranno le mutande ( metaforicamente, si intende…).

Un ragazzo di colore vestito come Wade, ma con una pancia come se si fosse mangiato l’asso dei Miami Heats, si addormenta al tavolo: quando è il suo turno un pensionato con camicia floreale gli da un colpetto sulla spalla, lui guarda le carte con aria disgustata, annuncia il fold e si riaddormenta.

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Il meglio lo si vede ai dadi, ove nascono strettissime amicizie ma assolutamente effimere: il tempo di un filotto. Vedo una trentenne vestita da coniglietta riempire di baci un settantenne che, forse complice un evidente Parkinson, non sbaglia un tiro. Sei, otto, nove: e sono baci della ragazza. L’amore sembra sbocciare poi arriva il sette: il banco vince. Lei si allontana inviperita lanciando un imprecazione decisa: dubito che la vedrò sulla copertina di Playboy e pure che entrerà all’Accademia della Crusca… Il settantenne saluta con la mano tremolante: gli servirà…

Passo al black jack e avrei pure voglia di giocare ( il soprannome Jack non è nato per caso…) se non fosse che le ultime due caselle sono occupate da una signora cotonata di età difficilmente definibile, forse con il carbonio 14. Fermamente convinta che vince chi fa 21 continua a chiamare con 17 e quando il dealer le distribuisce due figure e non la degna di uno sguardo ci rimane male: avrebbe voluto cercare un asso! Di fianco a lei un signore romano incravattato che tenta di tenerla a bada per dare un equilibrio al tavolo: lui le spiega che quando il banco ha fuori un 5 si sta fermi anche con 12, lei non vuole sentire ragioni. Alla terza chiamata folle che fa legare al banco i cani con la salsiccia il romano sbotta: “E mo’ mai rotto er…”. La vecchia abbozza: “What?”. “A cadavere, se non te voi portare le piotte dentro la bara dalle a me!”. Lei, forse confusa dall’accento, non capisce bene, scuote la testa e chiama con 18.

Ehi , ma ho fatto appena 50 metri, ce ne sono tanti altri da percorrere: faccio un altro giro che merita e domani vi faccio sapere!

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