Saturday, Aug. 16, 2025

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il 16 Ago 2025

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Kristy Arnett racconta il primo successo di suo marito da papà

Kristy Arnett racconta il primo successo di suo marito da papà

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Come cambia la vita di un giocatore di poker professionista dopo che arrivano i figli? Ogni esperienza fa storia a sé, ma ne abbiamo oggi un esempio molto bello e delicato da parte di Kristy Arnett Moreno, ex giocatrice e blogger di PokerNews, da anni moglie del poker pro americano Andrew Moreno.

Kristy ha condiviso su Instagram un racconto che apre uno spaccato sul suo ménage familiare e su come abitudini, gesti, comportamenti e sensazioni sono cambiati negli anni, soprattutto dopo che sono arrivati i figli.

Kristy Arnett e Andrew Moreno raccontano la vita familiare da poker pro

Quello che segue, è la traduzione del racconto che potete trovare anche sul profilo Instagram di Kristy Moreno.

“Quando eravamo ragazzi”

“Prima dei trent’anni, se io o Andrew avessimo centrato un tavolo finale, subito ci sarebbe stato un fitto scambio di messaggi in chat e, nell’arco di un’oretta, i nostri amici si sarebbero presentati a fare il tifo con le birre in mano. Una volta, quando feci un final table al Venetian, Andrew brasò lo stack che aveva in un evento al Planet Hollywood, così da poterci essere. Preferiva bustare che perdersi l’occasione di fare il tifo per me. Non me ne rendevo conto, ma già allora era sapevo quanto fossimo legati. Urlavamo, facevamo il tifo e chiamavamo i camerieri per qualche shot celebrativo. E non importa la posizione finale nel torneo, saremmo comunque andati a fare festa, finendo per prendere bottiglie dai prezzi insensati in qualche club mentre cercavamo di darci un tono prendendo un tavolo vicino alla cabina del dj.

Quindi, a fine serata, saremmo tornati a casa mano nella mano, lanciando via le scarpe e finendo sfiniti a letto, raccontandoci ogni mano possibile fino a crollare dal sonno. Eravamo senza pensieri e senza nulla da fare il giorno dopo.

Oggi, tutto è cambiato.”

La vita e la famiglia di un poker pro con prole

“Dopo la lunga maratona delle WSOP, in cui abbiamo visto davvero poco Andrew, eravamo finalmente tornati al nostro menage familiare a casa ad Austin. Maya aveva detto “papà” per la prima volta, mentre Miles aveva iniziato ad alzarsi prestissimo tutte le mattine per giocare a costruire i Monster Truck con Andrew. Ci eravamo finalmente ritrovati, ma presto ci sarebbe stata una nuova separazione: Andrew doveva prendere l’aereo per la California a giocare il Main da 2.7k dal Rolling Thunder.

Lo accompagniamo in macchina, salutandoci con baci e abbracci. Miles gli urla “runna bene, gioca bene!”. Prima di sparire, Andrew si gira e i nostri sguardi si incrociano per un’ultima volta. Io sorrido e faccio ciao con la mano. Lui sorride a sua volta, ma entrambi sapevamo che i nostri sorrisi nascondevano qualcosa. Andrew adora essere un poker pro, è la sua passione ed è ciò che ci porta il pane a casa. Anche io adoro stare a casa coi bimbi, ha dato come un senso alla mia vita. Ad ogni modo, dopo che Andrew va via, siamo entrambi tristi.

I nostri sorrisi erano quelli di chi vuole far finta che sia tutto ok. Il mio copriva una punta di invidia. Forse perché mi mancava la mia identità di giocatrice di poker, quando non ero ancora una mamma. Il suo, di sorriso, nascondeva invece un senso di colpa. Forse perché non avrebbe voluto partire di nuovo e sarebbe voluto rimanere a casa, forse perché pensava che io fossi preoccupata per il fatto di non contribuire con il mio lavoro. Alla fine, credo che entrambi ci chiediamo, una volta ogni tanto, se stiamo facendo le cose giuste.

Il volo di Andrew viene cancellato e riprenotato, quindi in ritardo anche quello. Andrew era arrabbiato, per il fatto che – a saperlo – sarebbe potuto rimanere più tempo con noi. Alla fine, si è perso il day 1A e gli rimaneva solo il day 1B. E ha spaccato.

A circa 80 left, Andrew aveva uno grosso stack. Quindi rimane coinvolto in una mano in cui check-raisa flop, betta turn e river, ma l’avversario manda resto. Lui riflette molto, poi folda colore. L’avversario mostra orgogliosamente il suo bluff, mentre Andrew non ha problemi a dichiarare cosa aveva foldato. Un’altra giocatrice al tavolo, che stava runnando molto bene, lo guarda e fa, con tono sussiegoso “ehi bello, come fai a foldare colore qui?”, come se Andrew fosse un fesso qualunque e lei fosse il nuovo sceriffo.

Lui mi dice che era come se il tavolo stesse godendo, a vedere il pro superduro che sbaglia, come se avessero atteso tutto il giorno per quel momento. L’Andrew di qualche anno fa avrebbe persino alzato le mani, oppure sarebbe esploso cercando di forzare una giocata per vendicarsi. Ma l’Andrew quarantenne di oggi è diverso: ha respirato profondamente e ha ripetuto a se stesso ciò che sapeva già per esperienza, ovvero che foldare la mano migliore non è sempre segno di debolezza. A volte è saggezza. Se non foldi mai la mano migliore, significa che calli troppo. La prova del nove è quella di foldare la mano migliore e riuscire comunque a giocare bene in seguito.

Andrew guarda al suo stack nuovo stack, parecchio più short, e dice a se stesso: “ok, e ora vediamo di che pasta siamo fatti.”

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Kristy, Andrew e la vittoria “di famiglia”

“Ha rimontato, piano piano, gradualmente, in silenzio. Fino a quando è arrivato al tavolo finale da chipleader. Alla pausa cena, ci ha videochiamati: “papà sta provando a vincere un trofeo”, ho detto a Miles. Andrew annuisce e aggiunge “sì, bello mio, ma è stata davvero dura”. Miles mette un Grave Digger di fronte alla fotocamera e dice “prendi un monster truck e asfalta tutti!”, ridendo. E poi dà un consiglio a suo padre “sai che puoi fare cose difficili, papà”.

Andrew sorride e gli risponde “bel consiglio, piccolo mio”.

Quando da noi era circa mezzanotte e mezzo, le 10 e mezzo in California, ero a letto con Miles sulle mie spalle e Maya sul petto. Io scrollavo in continuazione gli aggiornamenti del torneo, fino a quando ho letto l’ultimo

Andrew Moreno (PokerNews & Rachel Kay Winter)

Nessun amico in tribuna. Nessuno shot celebrativo e nessuna serata celebrativa in disco. Ma avrei voluto comunque essere lì con lui, per abbracciarlo, per fare la foto di rito con il trofeo insieme a lui. Per andare a cena e parlare di tutte le mani. Ho sentito quello stesso batticuore e quelle farfalle sullo stomaco che provavo un tempo, solo che adesso mi trovavo in una stanza da letto, in silenzio.

Quando eravamo ragazzi, il poker era ciò con cui volevamo provare al mondo di essere qualcuno. Magari, in parte, è ancora così. Ma adesso, con i figli, è diventato qualcosa di più profondo, di molto più significativo. Qualcosa che ti fa sentire un senso di appartenenza, ma anche un senso del dovere, come un modo per diventare le persone da cui vorremmo che i nostri figli imparassero.

Penso a tutto questo mentre finisco di leggere l’articolo e Miles ronfa accanto a me. E mi chiedo cosa stia provando Andrew in questo momento. Sta mettendo il trofeo nello zaino? Sarà andato da solo alla cassa a ritirare il premio? Mentre penso, arriva il suo messaggio: “We did it”. Il telefono si illumina mentre leggo e sorrido, perché è ciò che dice ora, quando vince il torneo. “Ce l’abbiamo fatta”, non “ce l’ho fatta”. E quella piccola parola “we” mi ricorda i ragazzi che eravamo, e che siamo ancora insieme.

Gli rispondo che sono orgogliosa di lui e Andre mi dice che è stata davvero dura.

“Meno male che Miles ti ha dato un buon consiglio”, gli dico. “Era davvero buono”, mi risponde.

Stringo i bimbi vicino a me e chiudo gli occhi con la consapevolezza che, per la prima volta, quel “we” di cui Andrew parlava eravamo davvero tutti noi. 

 

Immagine di copertina: Kristy Arnett Moreno (PokerNews & Alicia Skillman)

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